Se è tutto improvvisato, perché sembra spesso la stessa solfa?
Ci siamo imbattuti in un articolo di Michael Such, che lancia una provocazione sulla varietà estetica dell’improvvisazione, partendo dalla scena londinese, suo luogo d’origine. L’articolo è piuttosto lungo e intricato, ma cerchiamo di catturarne l’essenza e riportare i punti fondamentali, tradotti.
La riflessione parte dal concetto espresso nel titolo: se una delle basi dell’improvvisazione teatrale consiste proprio nel “tutto può succedere”/“non è mai lo stesso spettacolo”, com’è che spesso ci viene da pensare di aver già visto quella stessa scena?
E qui il nostro buon Michael fa delle premesse: non mancano, (anche in Italia, ndt), spettacoli sperimentali, interessanti e vari, ma ci si riferisce qui alla normalità degli spettacoli settimanali, saggi, serate standard d’improvvisazione. Inoltre, il punto di vista è quello di uomo/etero/caucasico, perciò potrebbero essere semplicemente ignote all’autore molte situazioni a lui estranee (anche a chi traduce).
La somiglianza tra i vari spettacoli deriva dagli stessi format, dai generi stereotipati (quanti noir iniziano con una coppia di fumatori in un porto?), ma scavando più in profondità, si potrebbe andare alla ricerca dell’estetica di uno spettacolo d’improvvisazione: l’aspetto e la voce di uno spettacolo, insieme ai binari che ne guidano la costruzione. La scelta di vestiti casual (#stoptute2017) e di scene “11” (i 2 improvvisatori in piedi, uno a fianco all’altro; e niente, mi piaceva come rende l’immagine della staticità di quelle scene: 11) porterà quasi sempre a una serata comico-grottesca, seguendo l’idea generale anche di molto pubblico italiano: “stasera vado a vedere improv, farà ridere”.
Fin qui, nessuna critica, in fondo far ridere non è un difetto, e se è così che ci si vende, non far ridere finirebbe per essere un disservizio e una delusione. Ma tornando alla tesi iniziale, ovvero che qualsiasi cosa può succedere, nell’improvvisazione teatrale, una maggiore varietà di emozioni sarebbe sicuramente ben accetta: improv che fa piangere, improv scandalosa, spaventosa, persino noiosa. Sarebbe comunque una ventata d’aria fresca. Pensiamo alle arti figurative. La maggior parte dell’improvvisazione teatrale attuale è simile a un “bellissimo quadro semi-realistico, impressionista”. Per anni, questo è stato lo standard dell’arte: la fedeltà al vero. Poi ci sono stati il XIX e il XX secolo, le norme si sono sgretolate e abbiamo avuto il futurismo, il cubismo, la pop-art e tutta quell’arte concettuale ancora incomprensibile ai più. Saremmo in grado di creare l’equivalente improvvisativo dell’arte concettuale? Come potrebbe essere? Non mancano, ovviamente, le sperimentazioni in questo senso, ma sono ancora una nicchia rispetto al mare magnum improvvisativo, anche italiano. Ma la verità è che è impossibile immaginare tutto ciò che l’improvvisazione potrebbe diventare. Ed è proprio questo il punto. Così come un’opera di Rothko distrugge completamente le tue aspettative su come potrebbe essere un quadro, se l’unico artista che conosci è Gainsborough.
Una delle possibili ragioni per questa “ripetitività” estetica potrebbe risiedere nell’idea di improvvisazione come abilità, invece che come forma d’arte. “Improvvisare meglio” è visto come un apprendimento tecnico, trascurando un approfondimento interiore e la formazione di un punto di vista unico. Di solito commentiamo uno spettacolo con “bella scena” o “mi piace quello che hai fatto in quel punto”, e quasi mai con frasi tipo “lo spettacolo parlava di questo e di quest’altro”. Confrontiamolo coi commenti uscendo da un cinema o da uno spettacolo teatrale “classico”, o una mostra d’arte. In parte, è una conseguenza di come viene insegnata l’improvvisazione. Molti improvvisatori non hanno una formazione artistica. Iniziano per hobby, e solitamente l’insegnamento segue una gerarchia di livelli e un progresso ben definito. Dovendo essere insegnata di persona e da improvvisatori più esperti, s’instaura una relazione molto forte tra maestri e allievi, con la tacita idea che migliorare significhi somigliare di più ai maestri. Molti improvvisatori, inoltre, restano nella stessa scuola molto a lungo, e anche creando nuovi gruppi, spesso non si discostano molto dai format appresi in quella scuola.
Di nuovo, paragonando all’arte figurativa, è ovvio che la pittura sia prima di tutto una questione tecnica, di abilità. Ma è altrettanto ovvio che per avere un impatto, servono punti di vista o metodi interessanti, per provocare interrogativi, emozioni, riflessioni. Non basta essere i più proficui o tecnicamente validi. Va benissimo come hobby, ma non ci si può aspettare di creare arte rivoluzionaria. Per quella, bisogna trascendere tutto ciò che si è imparato, trovare la propria voce, ed esprimere ciò che si vuol dire.
Un altro modo di porre la questione: nel teatro tradizionale, riconosciamo chiaramente i diversi ruoli: attori, registi, produttori, autori, scenografi… Nell’improvvisazione, sono tutti concentrati nella stessa persona. Eppure ci alleniamo quasi esclusivamente nella recitazione, trascurando tutti gli altri ruoli. Se presenti qualcosa su un palco, devi saper pensare come un produttore, uno scenografo, un regista eccetera. Sta tutto nel pensare a come tutto lo spettacolo viene visto da fuori, ben oltre il tuo singolo personaggio.
Potrebbe sembrare tutto troppo serio e faticoso. Ma non dev’esserlo per forza. L’improvvisazione ha radici profonde nel gioco e nella leggerezza. Possiamo essere meravigliosamente giocosi in scena. Ma spesso non viene usata la stessa leggerezza nella costruzione degli spettacoli.
Trovare la tua voce significa anche approfondire ciò che ami. Hai letto un libro o visto un film che ti ha ispirato? Perché non fare uno spettacolo sugli stessi temi? Nessuno può replicare la tua unicità e il tuo punto di vista sul mondo. Sii l’improvvisazione che vuoi vedere nel mondo.
Gli improvvisatori si concentrano su elementi diversi rispetto al pubblico generalista, per via dell’allenamento comune. Non è inusuale uscire da uno spettacolo improv e realizzare di averlo assorbito da “addetti ai lavori”, da registi, invece che da spettatori. Il focus eccessivo sulla tecnica ci porta anche a complimentarci con gli attori dando note tecniche, invece che emotive o di effettivo feedback “da pubblico”.
La concentrazione sulla tecnica, e in particolare sulle tecniche che funzionano, è chiaramente un’abitudine molto ben radicata negli esseri umani. L’improvvisazione ha una relazione molto curiosa con l’abitudine. Il fatto stesso di non avere un testo e di dover reagire istantaneamente, dà molto più potere alle nostre scelte standard, plasmate dall’esperienza personale. Possono crearsi seri danni quando tutto ciò si incrocia con pregiudizi e privilegi. Potremmo anche trattenerci dal giudicare scelte fatte sul palco per non andare a ferire i sentimenti degli attori, essendo tutto istintivo e personale. La genuinità delle scene fa parte della bellezza di quest’arte. Ma altera il dialogo. Le abitudini sono utili, ma dovremmo allenarci a esplorarne l’utilità. Ad esempio, quando continuiamo a caricare ruoli secondari sui personaggi femminili, o quando ci affidiamo sempre agli stessi accenti e stereotipi. Dovremmo sforzarci di rompere le abitudini nocive. Se stai obbedendo all’abitudine, non stai reagendo onestamente alla situazione unica che ti si presenta davanti, perdendo quindi per sempre quell’opportunità. Non è un processo semplice. Ma forse sarebbe utile a tutti parlare più liberamente dei personaggi e delle scelte che compiamo mentre improvvisiamo. Persino la conoscenza delle abitudini dei singoli improvvisatori potrebbe essere un’arma potente, nella costruzione di uno spettacolo.
Consigli per rendere più vari i nostri spettacoli:
- Considera lo spettacolo dal punto di vista del pubblico, o da una prospettiva “artistica”.
- Decidi il messaggio che vuoi comunicare, poi cerca di orientare ogni aspetto dello spettacolo in quella direzione. Nell’articolo, viene definito come approccio “design-oriented”. E non s’intende che debba tutto diventare teatro d’avanguardia o di denuncia. Potrebbe anche solo essere “il tipo di spettacolo in cui si indossano vestiti casual”. Magari funziona. Altrimenti, quei vestiti potrebbero non essere la scelta migliore. Cerchiamo di essere consapevoli delle scelte che facciamo. Stiamo facendo uno spettacolo che dovrà essere guardato da un pubblico.
L’improvvisazione è una forma teatrale stupenda, rischiosa e personale, che esiste solo per un momento. Ma troppo spesso gli spettacoli improvvisati sembrano uguali, una settimana dopo l’altra. Probabilmente quest’occasione mancata è dovuta al cercare di “improvvisare bene” davanti ad altri improvvisatori. Dobbiamo pensare di più a cosa dicono i nostri spettacoli, e come arrivano al pubblico. Creiamo spettacoli con scelte più consapevoli sul formato e lo stile. Dopotutto - stiamo creando arte.
E qui il nostro buon Michael fa delle premesse: non mancano, (anche in Italia, ndt), spettacoli sperimentali, interessanti e vari, ma ci si riferisce qui alla normalità degli spettacoli settimanali, saggi, serate standard d’improvvisazione. Inoltre, il punto di vista è quello di uomo/etero/caucasico, perciò potrebbero essere semplicemente ignote all’autore molte situazioni a lui estranee (anche a chi traduce).
La somiglianza tra i vari spettacoli deriva dagli stessi format, dai generi stereotipati (quanti noir iniziano con una coppia di fumatori in un porto?), ma scavando più in profondità, si potrebbe andare alla ricerca dell’estetica di uno spettacolo d’improvvisazione: l’aspetto e la voce di uno spettacolo, insieme ai binari che ne guidano la costruzione. La scelta di vestiti casual (#stoptute2017) e di scene “11” (i 2 improvvisatori in piedi, uno a fianco all’altro; e niente, mi piaceva come rende l’immagine della staticità di quelle scene: 11) porterà quasi sempre a una serata comico-grottesca, seguendo l’idea generale anche di molto pubblico italiano: “stasera vado a vedere improv, farà ridere”.
Fin qui, nessuna critica, in fondo far ridere non è un difetto, e se è così che ci si vende, non far ridere finirebbe per essere un disservizio e una delusione. Ma tornando alla tesi iniziale, ovvero che qualsiasi cosa può succedere, nell’improvvisazione teatrale, una maggiore varietà di emozioni sarebbe sicuramente ben accetta: improv che fa piangere, improv scandalosa, spaventosa, persino noiosa. Sarebbe comunque una ventata d’aria fresca. Pensiamo alle arti figurative. La maggior parte dell’improvvisazione teatrale attuale è simile a un “bellissimo quadro semi-realistico, impressionista”. Per anni, questo è stato lo standard dell’arte: la fedeltà al vero. Poi ci sono stati il XIX e il XX secolo, le norme si sono sgretolate e abbiamo avuto il futurismo, il cubismo, la pop-art e tutta quell’arte concettuale ancora incomprensibile ai più. Saremmo in grado di creare l’equivalente improvvisativo dell’arte concettuale? Come potrebbe essere? Non mancano, ovviamente, le sperimentazioni in questo senso, ma sono ancora una nicchia rispetto al mare magnum improvvisativo, anche italiano. Ma la verità è che è impossibile immaginare tutto ciò che l’improvvisazione potrebbe diventare. Ed è proprio questo il punto. Così come un’opera di Rothko distrugge completamente le tue aspettative su come potrebbe essere un quadro, se l’unico artista che conosci è Gainsborough.
Una delle possibili ragioni per questa “ripetitività” estetica potrebbe risiedere nell’idea di improvvisazione come abilità, invece che come forma d’arte. “Improvvisare meglio” è visto come un apprendimento tecnico, trascurando un approfondimento interiore e la formazione di un punto di vista unico. Di solito commentiamo uno spettacolo con “bella scena” o “mi piace quello che hai fatto in quel punto”, e quasi mai con frasi tipo “lo spettacolo parlava di questo e di quest’altro”. Confrontiamolo coi commenti uscendo da un cinema o da uno spettacolo teatrale “classico”, o una mostra d’arte. In parte, è una conseguenza di come viene insegnata l’improvvisazione. Molti improvvisatori non hanno una formazione artistica. Iniziano per hobby, e solitamente l’insegnamento segue una gerarchia di livelli e un progresso ben definito. Dovendo essere insegnata di persona e da improvvisatori più esperti, s’instaura una relazione molto forte tra maestri e allievi, con la tacita idea che migliorare significhi somigliare di più ai maestri. Molti improvvisatori, inoltre, restano nella stessa scuola molto a lungo, e anche creando nuovi gruppi, spesso non si discostano molto dai format appresi in quella scuola.
Di nuovo, paragonando all’arte figurativa, è ovvio che la pittura sia prima di tutto una questione tecnica, di abilità. Ma è altrettanto ovvio che per avere un impatto, servono punti di vista o metodi interessanti, per provocare interrogativi, emozioni, riflessioni. Non basta essere i più proficui o tecnicamente validi. Va benissimo come hobby, ma non ci si può aspettare di creare arte rivoluzionaria. Per quella, bisogna trascendere tutto ciò che si è imparato, trovare la propria voce, ed esprimere ciò che si vuol dire.
Un altro modo di porre la questione: nel teatro tradizionale, riconosciamo chiaramente i diversi ruoli: attori, registi, produttori, autori, scenografi… Nell’improvvisazione, sono tutti concentrati nella stessa persona. Eppure ci alleniamo quasi esclusivamente nella recitazione, trascurando tutti gli altri ruoli. Se presenti qualcosa su un palco, devi saper pensare come un produttore, uno scenografo, un regista eccetera. Sta tutto nel pensare a come tutto lo spettacolo viene visto da fuori, ben oltre il tuo singolo personaggio.
Potrebbe sembrare tutto troppo serio e faticoso. Ma non dev’esserlo per forza. L’improvvisazione ha radici profonde nel gioco e nella leggerezza. Possiamo essere meravigliosamente giocosi in scena. Ma spesso non viene usata la stessa leggerezza nella costruzione degli spettacoli.
Trovare la tua voce significa anche approfondire ciò che ami. Hai letto un libro o visto un film che ti ha ispirato? Perché non fare uno spettacolo sugli stessi temi? Nessuno può replicare la tua unicità e il tuo punto di vista sul mondo. Sii l’improvvisazione che vuoi vedere nel mondo.
Gli improvvisatori si concentrano su elementi diversi rispetto al pubblico generalista, per via dell’allenamento comune. Non è inusuale uscire da uno spettacolo improv e realizzare di averlo assorbito da “addetti ai lavori”, da registi, invece che da spettatori. Il focus eccessivo sulla tecnica ci porta anche a complimentarci con gli attori dando note tecniche, invece che emotive o di effettivo feedback “da pubblico”.
La concentrazione sulla tecnica, e in particolare sulle tecniche che funzionano, è chiaramente un’abitudine molto ben radicata negli esseri umani. L’improvvisazione ha una relazione molto curiosa con l’abitudine. Il fatto stesso di non avere un testo e di dover reagire istantaneamente, dà molto più potere alle nostre scelte standard, plasmate dall’esperienza personale. Possono crearsi seri danni quando tutto ciò si incrocia con pregiudizi e privilegi. Potremmo anche trattenerci dal giudicare scelte fatte sul palco per non andare a ferire i sentimenti degli attori, essendo tutto istintivo e personale. La genuinità delle scene fa parte della bellezza di quest’arte. Ma altera il dialogo. Le abitudini sono utili, ma dovremmo allenarci a esplorarne l’utilità. Ad esempio, quando continuiamo a caricare ruoli secondari sui personaggi femminili, o quando ci affidiamo sempre agli stessi accenti e stereotipi. Dovremmo sforzarci di rompere le abitudini nocive. Se stai obbedendo all’abitudine, non stai reagendo onestamente alla situazione unica che ti si presenta davanti, perdendo quindi per sempre quell’opportunità. Non è un processo semplice. Ma forse sarebbe utile a tutti parlare più liberamente dei personaggi e delle scelte che compiamo mentre improvvisiamo. Persino la conoscenza delle abitudini dei singoli improvvisatori potrebbe essere un’arma potente, nella costruzione di uno spettacolo.
Consigli per rendere più vari i nostri spettacoli:
- Considera lo spettacolo dal punto di vista del pubblico, o da una prospettiva “artistica”.
- Decidi il messaggio che vuoi comunicare, poi cerca di orientare ogni aspetto dello spettacolo in quella direzione. Nell’articolo, viene definito come approccio “design-oriented”. E non s’intende che debba tutto diventare teatro d’avanguardia o di denuncia. Potrebbe anche solo essere “il tipo di spettacolo in cui si indossano vestiti casual”. Magari funziona. Altrimenti, quei vestiti potrebbero non essere la scelta migliore. Cerchiamo di essere consapevoli delle scelte che facciamo. Stiamo facendo uno spettacolo che dovrà essere guardato da un pubblico.
L’improvvisazione è una forma teatrale stupenda, rischiosa e personale, che esiste solo per un momento. Ma troppo spesso gli spettacoli improvvisati sembrano uguali, una settimana dopo l’altra. Probabilmente quest’occasione mancata è dovuta al cercare di “improvvisare bene” davanti ad altri improvvisatori. Dobbiamo pensare di più a cosa dicono i nostri spettacoli, e come arrivano al pubblico. Creiamo spettacoli con scelte più consapevoli sul formato e lo stile. Dopotutto - stiamo creando arte.
Mi sento meno solo. Grazie.
RispondiEliminaUn abbraccio.
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